Nuovi sviluppi sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969: il racconto di chi partecipò agli attentati sui treni nell'agosto '69 e il ritrovamento del deposito da cui uscì l'esplosivo. E a quaranta anni dalla strage, il disinteresse della Procura.
«Io continuo a chiedermi e non sono l'unico, perché per indagini vecchie e nuove, dall'omicidio Calabresi alle Brigate rosse, ad Abu Omar, per non parlare di mafia e corruzione, si siano spese a Milano le forze e l'impegno migliori, si sia lavorato con intelligenza, e perché piazza Fontana sia invece rimasta nell'armadio delle scope». Queste le considerazioni piuttosto amare, raccolte da Luciano Lanza in una lunga intervista al giudice Guido Salvini, ora in «Bombe e segreti» (elèuthera, pag. 180, euro 14), uno dei migliori libri dedicati alle vicende del 12 dicembre 1969, uscito nel 1997, ristampato con questo nuovo importante contributo in occasione del quarantennale della strage.L'interrogativo posto dal giudice Salvini, che condusse dal 1989 al 1997 l'inchiesta sui gruppi di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, poi sfociata nelle nuove indagini su piazza Fontana, è più che lecito. Da più di un anno, infatti, si stanno accumulando nuovi e importanti riscontri su figure e personaggi un tempo di primo piano nell'eversione di destra del Veneto, senza che ciò scuota minimamente la Procura della Repubblica di Milano.Nel settembre 2008 Gianni Casalini, uno dei frequentatori, negli anni Sessanta e Settanta, della libreria Ezzelino di Franco Freda a Padova, poi reclutato come informatore dal Sid, nome in codice «Turco», chiede, tramite lettera, di poter conferire con il giudice Salvini. Ha molte cose da raccontare. In precedenza, bloccato dalla paura di ritorsioni da parte degli ex camerati, si era lasciato andare solo a qualche timida ammissione. In particolare nel maggio 2000, in aula a Milano, durante il primo grado dell'ultimo processo sulla strage di piazza Fontana, in un difficile quanto tormentato interrogatorio, aveva fatto cenno alla sua partecipazione agli attentati sui treni nell'agosto 1969, una decina di bombe, di cui otto scoppiate, dodici i feriti. Una deposizione letteralmente caduta nel vuoto, senza che nessuno neanche si ponesse il problema di risentirlo successivamente.Prima al giudice Salvini, poi, un paio di mesi dopo, di fronte a un sostituto procuratore, Gianni Casalini racconta con dovizia di dettagli del suo operato alla stazione Centrale di Milano nella notte dell'8 agosto 1969. Di come collocò due bombe su altrettanti treni in partenza, il numero del binario di uno dei due, la carta da regalo con cui erano stati avvolti gli ordigni per mascherarli. Riferisce anche l'identità di chi era stato a reclutarlo alla libreria Ezzelino. Fa il nome di uno dei principali collaboratori di Franco Freda, Ivano Toniolo, già comparso nelle telefonate registrate dall'ufficio politico della Questura di Padova in preparazione di una famosa riunione, tenutasi effettivamente il 18 aprile del 1969, in cui Ordine nuovo decise di dare impulso operativo alla campagna di attentati. Nell'occasione, Toniolo, per l'incontro, aveva anche messo a disposizione la casa della madre, esponente di una delle correnti più radicali dell'Msi. Amico di Delfo Zorzi, dopo l'inizio delle prime indagini sulla «pista nera», Ivano Toniolo, annusando il pericolo, era fuggito all'estero, prima in Spagna, poi in Mozambico.Non è inutile ricordare che Franco Freda e Giovanni Ventura furono entrambi condannati con sentenza definitiva a 15 anni per quegli attentati sui treni e per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla stazione Centrale di Milano. Nell'ultimo processo milanese si è accertato in modo definitivo che quegli stessi attentati facessero parte del piano che doveva portare alla strage del 12 dicembre. Nella sua deposizione, Gianni Casalini, ha, peraltro, aggiunto nuovi e non trascurabili elementi proprio su quei fatti del 25 aprile e fornito ulteriori riscontri sul ruolo giocato dall'agente «Zeta» del Sid Guido Giannettini. Un lungo racconto, ribadito per filo e per segno nel luglio scorso durante un'udienza nel dibattimento per la strage di piazza della Loggia. Non spetta a noi trarre conclusioni, certo è che in quelle deposizioni si fa il nome di una figura operativa del gruppo Freda, che reclutava per quelle azioni terroristiche che precedettero la strage alla Banca nazionale dell'agricoltura e che soprattutto aveva partecipato alla riunione decisiva del 18 aprile.Non è tutto. Ci sarebbero anche altri testimoni, emersi sempre nell'ambito del processo di Brescia, a loro volta decisi a parlare, e disponibili a ulteriori approfondimenti, che per ragioni di opportunità non è possibile al momento rendere pubblici. Possiamo solo dire che farebbero ulteriore luce sull'ubicazione dei depositi di armi in mano a Ordine nuovo nel Veneto e sulla loro gestione. Quegli stessi depositi da cui sarebbe stato prelevato l'esplosivo poi utilizzato per piazza Fontana. In particolare su quello di Paese, un piccolo comune nel trevigiano, frequentato da Giovanni Ventura e Delfo Zorzi, già rivelato in passato da Carlo Digilio, l'armiere del gruppo, ma mai ritrovato. Ora, grazie, a questi nuovi sviluppi, lo si sarebbe finalmente individuato, riuscendo anche a risalire al proprietario dei locali. Oltretutto, a Brescia, tra gennaio e febbraio del prossimo anno, è previsto l'interrogatorio del generale Maletti, l'ex responsabile dell'ufficio D del Sid, fuggito in Sud Africa, ma pronto a testimoniare. In una sua lunga intervista, che a giorni sarà resa pubblica, anticiperebbe a sua volta l'intenzione di rilasciare alcune importanti rivelazioni su piazza Fontana, mai precedentemente esternate. Ma ai vertici della Procura di Milano e ad Armando Spataro che la dirige, tutto ciò non sembrerebbe interessare. L'interrogatorio di Casalini, in cui lo stesso ha ammesso la propria responsabilità in ordine a due tentate stragi, è stato subito archiviato e non trasmesso ad alcun gip, a chi cioè poteva avviare una qualche indagine. Non ci si è neanche degnati di rispondere all'avvocato Federico Sinicato, che in rappresentanza dei familiari delle vittime ha avanzato un'istanza per la riapertura di un nuovo filone d'inchiesta. Perché? Ogni tanto sentiamo pronunciare su quegli anni la fatidica frase: «Chi sa parli!». Qualcuno lo sta facendo, ma ai vertici della Procura di Milano sembrerebbero tutti sordi. Si teme ancora una volta qualche scomoda verità, o, più semplicemente, non interessa più?
sabato 2 gennaio 2010
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1 commento:
Argomento interessante, complimenti. Speriamo che noi tutti possiamo assistere ad una rinascita delle coscienze e dell'attenzione del grande pubblico, nonostante le difficoltà in cui verte il teatro in questo nostro tempo. In bocca al lupo.
Andrea Roccioletti
www.benandanti.it
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