giovedì 30 ottobre 2008

Ma ci rendiamo conto?

Orrore Cossiga: Studenti e docenti andrebbero picchiati a sangue
''In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perche' pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito...''. ''Lasciar fare gli universitari - ha continuato - Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle universita', infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le citta'''. ''Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovra' sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri'', ha affermato Cossiga. ''Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pieta' e mandarli tutti in ospedale - ha continuato - Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in liberta', ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano''. ''Soprattutto i docenti - ha sottolineato - Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine si'.

fonte: www.francarame.it

Quest'uomo è stato Presidente della Repubblica. Eppure si permette di dire cose del genere. Manifestare è un diritto! Soprattutto se si tratta di studenti e docenti uniti contro una legge che rischia di mettere in ginocchio l'intera struttura scolastica nazionale.
Studenti e docenti hanno il diritto di scendere in piazza!

RECENSIONE DI MAGDA POLI


Sogno di una notte di mezza estate - Recensione di Magda Poli. Corriere della sera, 30 ottobre 2008

mercoledì 29 ottobre 2008

Recensione

Un "Sogno" da vedere e da gustare al CRT Teatro dell'Arte.
Lo spettacolo e' inserito nella Festa del Teatro, in svolgimento durante questo fine settimana.
Il “Sogno” di Shakespeare, opera dai complessi significati, è sempre stata gradita dal pubblico e l’allestimento operato dal Teatro della Cooperativa, in scena in questi giorni al CRT Teatro dell’Arte di Milano, non fa eccezione. Anzi, aggiunge nell’adattamento proposto un tono protestatario e di denuncia, sulla linea del Teatro Civile, che non guasta per nulla e invita comunque a qualche riflessione seria in questi tempi nei quali si rischia di andare a teatro come davanti alla televisione, solamente per rilassarsi, divertirsi e non pensare più di tanto. Piacciono i costumi, molto vistosi pur nella loro essenzialità, si accettano senza particolari problemi i gestacci, le parolacce, i doppi-sensi mai doppi e qualche frase politico-retorica inserita a forza nel testo, va a segno l’ambientazione della fatata foresta - ormai ex, visto che è divenuta una discarica dove sembra che fate ed elfi vivano in felicità (del resto oggi ci si adatta a tutto) -, centrata senz’altro la trasformazione della compagnia amatoriale in un irresistibile gruppo di donne delle pulizie e ci si diverte anche alle battute (una di quelle migliori, secondo me, di Teseo-Bokassa-Hannibal Lecter dal gusto macabro: ho pranzato con i capi ribelli, gente indigesta..”). Volendo puntualizzare qualcosa, dato che l’opera viaggia in continuo tra il sogno e il reale senza mai scegliere veramente dove collocarsi in modo definitivo, non è richiesto che si urli.
La compagnia ha dimostrato una vitalità, bravura ed un affiatamento notevoli: Rufin Doh Zéyénovin (Oberon/Teseo possente e inquietante per certi aspetti), Federica Fabiani (Bottom o meglio “Laramazza”, difficile da dimenticare, quasi un personaggio a sé), Sonia Litrico (Puck, un esecutore di beffe altrui, un ragazzo che gioca più che ideatore maligno in proprio) e tutti gli altri con Renato Sarti per la traduzione, l’adattamento e la regia.
Davvero una bella serata a teatro.
Dal 10 ottobre al 2 novembre Sogno di Una Notte di Mezza Estate di William Shakespeare al CRT Teatro dell’Arte via Alemagna 6, Milano www.teatrodellacooperativa.it

Fabio Calderola
fabio.calderola@voceditalia.it

martedì 28 ottobre 2008

GIORGIO FELICETTI


APPUNTI DI RICERCA su VITA D'ADRIANO
di Giorgio Felicetti

Volevo fare un lavoro teatrale sugli operai. Che lavoro fai? Niente, faccio l’operaio. Come niente? La classe operaia! La classe operaia? Ma di che parli? Fatti capire! Non volevo spiegare il mondo da una sedia di palcoscenico. Pensavo ad un monologo sulla vita di un uomo: un operaio che aveva lavorato in una grande fabbrica del ‘900, una fabbrica da film, dove tutto era storia, una fabbrica con un forte legame con la terra e con la lingua di quest’uomo. Tutto mi portava alla Cecchetti, la seconda fabbrica più grande delle Marche, tra le più importanti industrie italiane del settore ferroviario. Una roba da 50.000 operai ed operaie. La nostra Fiat, la nostra Ansaldo, la nostra Italsider. Insomma, la Fabbrica. Luogo confinato in una terra ai confini. Sì perché ogni volta che penso alle Marche, penso sempre ad un confine, una periferia, un limite. Bella, ma di là, lontana. Se esiste una marchigianità e cosa sia, non lo so, questo mestiere mi ha fatto ormai troppo nomade, per indossare un’appartenenza. So che quando in un posto, quello che senti e quello che vedi ti provoca armonia, ti accorgi che lì come minimo ci sei nato. E se in un posto ci sei nato, prima o dopo ci ritorni. Ed io ci sono tornato alla mia maniera, col mio mestiere: inventando e raccontando storie. Sono partito alla cerca di una razza in estinzione: gli operai, quelli vecchi, quelli andati, quelli senza vergogna. Ho fatto lunghe interviste ai cecchettari, così chiamavano quelli che lavo-ravano lì dentro. Cominciavo a conoscere la grande fabbrica, i reparti, le storie dei binari, di treni malconci da riparare, i termini tecnici da usare, e pian piano, l’immagine di questa immensa mappa di industria e di fatica prendeva forma ai miei occhi. Centinaia di storie, di uomini, di episodi, di dignità spesso calpestate eppure ancora integre. Mi accompagnava, in questa ricerca, l’operaio Umberto Pancotto, mio paziente Virgilio, che ha saputo guidarmi in quei gironi infernali, tra fon-derie, falegnamerie, carpenterie, carri ferroviari. Ho incontrato l’operaio Pietro Emili, memoria storica della fabbrica, una vita nel sindacato e nell’impegno politico. A lui devo tanti particolari che so ora raccontare. Ho scoperto Augusto Coppini, il pugile operaio, forse la figura che più di tutte ha influenzato la nostra scrittura: l’Augusto di Vita d’Adriano è pro-prio lui, con i suoi sogni, le sue incazzature, la sua fisicità, il suo amianto, i suoi silenzi. Adriano usa una lingua “strana”, mai usata a teatro, questa specie di marchi-giano, tanto sconosciuto che sembra inventato, e in qualche maniera lo è. Ho dovuto lottare contro le mie resistenze di attore e scardinare la mia dizione accademica per ficcarmi in bocca una lingua madre così “impura”; e se ci sono riuscito, lo devo anche all’insistenza di Francesco Niccolini, a cui molto devo in termini di scrittura e di struttura di questo monologo, nonché al giovane ingegnere-scrittore Andrea Chesi. La parlata di Adriano mi permetteva immediatamente di abbandonare qualsiasi tono teatrale, arrivava così, senza pudore, come una confessione. Tra mille dubbi, bisognava capire se si era sulla giusta strada: ho comin-ciato allora a leggere questa storia ovunque, in casa di amici, in giardino, in sale di ascolto. Poi, le prove aperte a teatro. C’è stato il progetto di residenza nel bellissimo teatro delle Logge di Montecosaro, lì potevamo ospitare ogni sera, per circa un mese, tante persone, abitanti del luogo, donne, ragazzi, anziani perlopiù, che dopo la cena venivano a veder nascere uno spettacolo, che sembrava parlasse di loro. Una sera temeraria ho tentato pure un’uscita all’esterno: mi sono piazzato con una sedia nel bel mezzo di un’accesa partita di bocce, a chiedere ascolto. Temevo mi avrebbero preso a bocciate in testa. E invece, dopo il primo sconcerto e qualche bestemmia degli anziani giocatori, è cominciato a calare un silenzio che a poco a poco diveniva ascolto assoluto. Alla fine, applauso spontaneo, e la partita di bocce poteva velocemente riprendere. La strada era giusta. Si potevano invitare a teatro i cecchettari, sì, toccava agli operai, quelli veri, per una anteprima tutta per loro. Forse l’emozione mia più grande: recitare davanti ai protagonisti la loro storia. Negli occhi di quegli uomini, così scomodamente seduti da chiedere quasi scusa della loro presenza, tra arazzi e poltrone di lusso di un teatro storico, capivo stupore incredulità e orgoglio: essi vedevano la loro vita diventare un monumento grande un’ora. Tutte queste persone mi hanno insegnato il linguaggio della dignità. Lo spettacolo ha debuttato nella sua forma definitiva il 14 luglio 2007, nell’area delle ex fonderie Marinelli, nel cuore della vecchia Civitanova operaia, davanti a mille spettatori.


QUANDO C’ERA LA CLASSE OPERAIA
Prefazione di Angelo Ferracuti





Niente mi toglie dalla testa che l’impresa, e, nella sua forma più classica, la fabbrica fordista, lo stabilimento come luogo chiuso e inviolabile, ha una sua natura autoritaria. Varcati i cancelli, si entra in un altro mondo dove le regole, le leggi della società civile, non esistono più, e dove il più delle volte peggiorano le condizioni dell’individuo: si è assoggettati, dipendenti, maestranze. Ma anche la vita vissuta fuori, una volta si diceva la condizione operaia, diventa per l’individuo una sorta di stare al mondo, filtro assoluto del mondo attraverso uno status sociale particolare, fantasmatico eppure realistico alla massima potenza. Basterebbe leggersi le poesie di un poeta grandissimo, Luigi Di Ruscio, anche lui marchigiano, seppure trapiantato ad Oslo, in Norvegia, che dell’esperienza della fabbrica come epopea, come epica, ha lasciato libri indimenticabili e di potenza verbale impressionante, per dire che il luogo dove si lavora è assoluto e condiziona per sempre tutta l’esperienza umana. Che questo pensiero della fabbrica come luogo totale, come mondo nel mondo assoggettato al profitto sia di un’attualità sconcertante, me lo conferma il bel monologo scritto da Giorgio Felicetti, insieme a Francesco Niccolini ed Andrea Chesi, e da lui stesso portato in scena con estrema bravura. È l’esperienza di un operaio delle Officine Meccaniche Cecchetti di Civitanova Marche, il cecchettaro nella neve Adriano Campini, detto Ninì, che racconta i molti, e anche di più di quei molti che erano classe, sindacato, nell’accezione più pura e comunitaria di condivisione, di fratellanza, e chiude un cerchio epocale di parole innervato in tutto il ’900. Anche lui ha questa percezione: “Semo tutti lì per quei quattro soldi che te da’ a metà mese. Se non fosse per quello che, c’andresti lì dentro? Non lo di’ manco per scherzo. Invece lì dentro, in un mondo a parte, finisce che ce passi le giornate tue e alla fine si stato più tempo lì che da ogni altro posto.” Nel suo monologo Adriano li aggrega tutti i suoi compagni, li rinomina, ricorda con dolcezza e con rabbia i tempi andati, li ricorda al presente, a esperienza finita, e la memoria che resta lascia amari: “Hanno tirato su palazzi banche e supermercati, e adesso te pare che ’sta fabbrica non c’è stata mai. Un secolo per costruilla, sognalla, fadigacce, falla cresce, difendela e poi, vendi e compri e vendi e co’ ’na botta de ruspa spacchi tutto”. La voce-memoria li ricorda tutti: “Giovanni, Aurelio, Benito, Fernando e Peppino”, e poi il boxeur “Augusto, quello più compagno de tutti”, oppure Ciro “che lasciava lo stipendio alla Provvida”.La prima cosa che mi ha impressionato di questo testo è la lingua, molto lavorata e forte da un punto di vista espressivo. Forse per la prima volta anche la parlata marchigiana, maceratese, scansato un vecchio pudore, diventa una lingua letteraria e teatrale, la lingua vera dell’esperienza, del vissuto, e questa operazione mi pare sorprendentemente riuscita, capace di impennate comiche e liriche altrimenti intraducibili. Una lingua madre, quella parlata dai nostri vecchi, giustissima nell’interpretare l’oralità e la memoria del passato. Una lingua viva, pulsante, capace di radicarsi nell’esperienza, così come è accaduto in molto teatro di narrazione più recente (Paolini, Celestini), e in un testo bellissimo, scritto da Edoardo Albinati e Filippo Timi Tuttalpiù muoio, dove un’altra lingua poco frequentata e minoritaria, quella umbra, trova una felice sintesi espressiva vertiginosa, e anch’essa diventa miracolosamente un organismo linguistico profondo e contemporaneo.
Il monologo di Adriano aggrega tutto in un parlatorio diffuso e inarrestabile, il protagonista racconta e racconta infaticabile la propria storia che non è solo sua ma di una intera generazione di lavoratori, quelli nati nei primi anni del secolo, o ancora prima, passati attraverso uno spaccato d’epoca febbrile: dalla guerra alla presa di coscienza politica, agli scioperi, l’attentato a Togliatti e la belva-polizia scelbiana che uccide trecento operai nel sangue delle piazze d’Italia. Fin quando non arriva la beffa, l’amianto, per molti anni utilizzato nella fabbrica, qui nel fantomatico reparto 500 “quello che nisciù ha visto mai e che da frico me facìa paura solo a sentillo nominà.” L’amianto, appunto, la neve che il cecchettaro ha respirato: “a la Cecchetti c’è entrato nel ’56, come i compagni russi in Ungheria, e l’effetto, più o meno è stato quello. C’ha messo li stessi anni a distrugge tutto” è la sintesi più amara. Questo è stato il colpevole costo del Capitale in fatto di vite umane. E nei prossimi anni si prevedono i picchi maggiori di mortalità. “Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto” è la frase posta sotto il monumento alle vittime dell’amianto ai cantieri navali di Monfalcone. È dello scrittore Massimo Carlotto, anche lui autore di un testo teatrale su questo argomento. Parafrasando quella frase, per gli operai della Cecchetti si potrebbe dire: “Costruirono treni magnifici, li uccise la neve, li tradì il profitto”.





Postfazione di Francesco Niccolini
CRONACHE DI OPERAI E PENSIONATI






Credo di essere uno dei tantissimi lettori che ha amato Memorie di Adriano, questo sublime viaggio poetico nei ricordi di un imperatore romano offerti al proprio figlio. Un grande imperatore protagonista di una grande storia. Credo di aver letto quelle pagine almeno cinque o sei volte, dai venti ai trent’anni, affascinato dal tono intimo, quasi normale, che un uomo tut-t’altro che normale riusciva a usare per la sua vita. Un imperatore che si esprime come un poeta: «Animula vagula blandula… » Per gli strani destini e le fortune della vita, all’opposto di Marguerite Your-cenar – e con un pubblico infinitamente meno numeroso – mi è accaduto di lavorare a una grande quantità di storie piccole, di uomini che tutto furono fuorché imperatori: zeri assoluti, comprimari, nomi ignoti, persone che non hanno fatto la storia. Eppure che una storia hanno. Nel febbraio 2007 erano ormai alcuni mesi che stavo lavorando a un monologo su una storia di fabbrica per Giorgio Felicetti. Mentre ascol-tavo le parole di Andrea Chesi, generosissimo ricercatore-autore che mi ha affiancato in questa complicata avventura, ha cominciato a prendere corpo una curiosa idea: scrivere delle nuove memorie d’Adriano, un Adriano che come l’imperatore è a breve distanza dalla morte, ha un male dentro, non è ancora spacciato, ma che – invece d’essere imperatore – non è nulla. Operaio per quarant’anni. Alla Cecchetti. Civitanova Marche. Pensionato, capace di attendere la fine tenendo per mano la propria moglie. Forse meno triste dell’imperatore, solo e in attesa della stessa sorte. Dopotutto la morte ci porterà via tutti alla stessa, democraticissima maniera, imperatori scrittori attori popstar e operai. E se avremo la fortuna di restare lucidi e distaccati, imperatori o operai, forse potremo sperare di lasciare ai nostri figli parole dignitose. Esattamente come Adriano, detto Ninì, entrato alla Cecchetti durante la seconda guerra mondiale a tredici anni, e lì rimasto fino alla caduta del muro di Berlino. Il resto lo ha fatto UnoMattina o Sabato in famiglia, non ricordo bene. No, non sono un habitué di queste trasmissioni, tutt’altro. Però a volte mi capita, svegliandomi, quando sono in albergo, di accendere il televisore e – in assenza di un telegiornale – usare un programma qualunque come sottofondo per doccia e barba. Quella mattina, era marzo, stavo finendo la prima stesura di questa Vita d’Adriano. E, per grazia concessa, la televisione di stato decide di venirmi incontro: si parla d’amianto. Come posso non ascoltare, dato che da quando lavoro sulla Cecchetti di Civitanova proprio l’amianto è il tema centrale che però non riesco a tenerci dentro in nessun modo? Ecco la soluzione: il giovane specialista ne parla con grande serietà. Il pro-blema è enorme, e ormai non se lo nasconde più nessuno: in Europa ci aspettiamo decine di migliaia di morti per amianto nei prossimi anni. E in Italia? Solo in Italia più di ventimila. Silenzio in sala. Quasi freddo, gelo. Allora il medico decide di tranquillizzare lo spettatore: nessun problema per la gente normale, a morire saranno solo gli operai che lo hanno lavo-rato. Sospiro di sollievo in studio. Si può continuare tranquilli. E io resto di sasso. Come tranquilli? E gli operai? Quei ventimila operai ce li siamo dimenticati? E come si potrebbe sentire un ex operaio, arrivato all’età della pensione, che per abitudine o per caso ha sentito questo medico? In questi anni ho lavorato su tanti operai: quelli di Bagnoli, prepensio-nati a cinquant’anni, fieri della loro fabbrica e traditi da tutti. Quelli di Marghera, fradici di CVM. Quelli di Bhopal, massacrati insieme a tutto il quartiere dei poveri dal MIC. E l’operaio che amo di più, Gelmino Ottaviani, fabbrica Riello a Vicenza, sopravvissuto a tutto senza un’ora di straordinario e un fantastico senso del limite. Vecchi, giovani, mezza età, sono un coro di incazzatura, rassegnazione, indignazione, e uno strano sentimento da sopravvissuti senza privilegi. Ecco, questo Adriano Campini detto Ninì, figura totalmente inventata (eppure nulla di quello che dice lo possiamo considerare una balla), è la sintesi di tutti loro e il mio modo – da figlio che non ha mai dovuto sporcarsi mani e polmoni in fabbrica – di dire grazie a quella generazione. Il resto, tutto il resto, lo ha fatto Giorgio Felicetti.

ULTIMA SETTIMANA!!!

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

AL Crt – Teatro dell'arte -
di Paolo Bignamini
www.ilsole24ore.com

Attuale e puntuale come ogni spettacolo di Renato Sarti, debutta al Teatro dell'Arte dopo l'anteprima estiva «Il sogno di una notte di mezza estate» rivisitato e corretto in chiave "sociale".Uno spettacolo che fa parlare Shakespeare di società e diversità, forzando (ma non troppo) l'allestimento e svelando un'originale strada interpretativa: «anche se le frontiere cadono, la parola sconfinamento sa di azzardo, di pericoloso, specie se la frontiera in questione non divide le nazioni ma i territori della mente e dell'immaginario. Esiste la tentazione. Esistono le tentazioni».
Questo sostiene Sarti, fondatore e animatore del Teatro della Cooperativa che nel panorama teatrale milanese e non solo ha saputo guadagnarsi una solida credibilità che va ben oltre l'apparente "militanza politica".
Perché le cose stanno così: solo all'apparenza il teatro di Sarti è teatro politico. Piuttosto, si tratta di un mood civile di intendere l'arte della scena (da «Mai morti» a «Nome di battaglia Lia», passando per Bernhard, che Sarti ha dimostrato di maneggiare e conoscere con sicurezza) che rispecchia una profonda onestà intellettuale. Così come solo apparente è la prima impressione di mistero per chi si accosta al "sogno": «in realtà – spiega Sarti – si tratta di una delle analisi più scioccanti e lucide della realtà: un meraviglioso gioco teatrale, popolare, lieve e comico, che non deve trarre in inganno. L'opposizione tra normalità e anormalità è qualcosa di ben più complesso e non si può esaurire sul piano morale. Il Sogno tratta del confine sottile che separa e congiunge la realtà e il sogno, il quotidiano e il mito, ciò che accettiamo e ciò che neghiamo a causa di certe convenzioni sociali, svelando così tutta la fragilità di questa distinzione. Questo capolavoro, a distanza di secoli, rimane un'autentica mina vagante posta dal buon vecchio William sotto le poltrone dei nostri comodi salotti».

Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare
traduzione, adattamento e regia Renato Sarti

con Sara Bellodi, Marco Brinzi, Antonio Casella, Giorgia Coco, Martina De Santis, Rufin Doh Zéyénovin, Federica Fabiani, Silvana Figueira de Oliveira, Mario Gualandi, Sonia Litrico, Fabrizio Lombardo, Milvys Lòpez Homen, Marta Marangoni, Rossana Mola, Elena Novoselova, Dijana Pavlovic, Domenico Pugliares, Sara Urbanproduzione Teatro della Cooperativa
Al Crt – Teatro dell'Arte dal 10 ottobre al 2 novembre – in prima nazionale
Info: tel. 02881298 - www.teatrocrt.it

lunedì 27 ottobre 2008

da Renato a Giorgio

Ho visto lo spettacolo Vita di Adriano, di Giorgio Felicetti che presentiamo al Teatro della Cooperativa fino al 2 novembre.
In sintonia con lo spettacolo vorrei essere di poche parole, ma significative.
Raramente a teatro, in tutta la mia vita, mi è capitato di rimanere così colpito. Il monologo dura meno di un'ora, ma la recitazione profondamente autentica e la scrittura asciutta non lascia scampo e Giorgio arriva laddove solitamente il teatro non arriva quasi mai: alle lacrime e allo strazio. L'amianto diventa tragica parabola finale dell'epopea operaia, fatta di lotte, di solidarietà, di gente che nonostante la fatica e i turni massacranti, rimane profondamente orgogliosa della storia a cui appartiene.
Da non perdere, da non perdere assolutamente.
Renato Sarti.

venerdì 24 ottobre 2008

VITA D'ADRIANO


VITA D'ADRIANO
memorie di un cecchettaro nella neve

Orario: Mart- Ven 20.45 ,dom 16.00
Prezzo: 15-12-10-8 €
dal 24 ottobre al 2 novembre 2008

TERRA DI TEATRI FESTIVAL - Provincia di Macerata
in collaborazione con LES ENFANTS DU PARADIS, FESTIVAL TERRA DI TEATRI,ESTEUROPAOVEST FESTIVAL
e CGIL CISL UIL


VITA D’ADRIANO
memorie di un cecchettaro nella nevedi Francesco Niccolini, Giorgio Felicetti, Andrea Chesi

regia Giorgio Felicetti
con Giorgio Felicetti

Inserito nell’ambito della 'Festa del Teatro'

E' la storia di una fabbrica.Dove in novanta anni hanno lavorato 50.000 persone.E' la storia di un operaio.E' la storia di due compagni che, insieme, attraversano la storiadi mezzo '900.E aspettano.E' la storia di una attesa. Di un treno. Un treno senza orario.La Officine Meccaniche Cecchetti di Civitanova Marche è statauna delle più importanti fabbriche italiane per la costruzione e lariparazione di carri e carrozze ferroviarie.Raccontare della Cecchetti vuol dire parlare del lavoro difabbrica di tutto il '900 italiano: le condizioni di lavoro, la presa dicoscienza di appartenere ad una “classe”, quella dei“cecchettari”,i pericoli e gli incidenti sul lavoro, gli scioperi, i licenziamenti, la chiusura, avvenuta nel 1994, per mancanzadi commesse a causa di una presenza terribile all'interno della Fabbrica, l'amianto. L'amianto veniva abbondantemente usato all'interno della Cecchetti per coibentare le carrozze ferroviarie.

Ed è proprio sull'amianto, dopo aver fatto un lungo periodo di ricerca ed intervistato molti ex operai, cheabbiamo focalizzato la nostra attenzione per scrivere questo nuovo monologo.Gli operai della Cecchetti hanno perso il posto di lavoro, hanno visto radere al suolo la fabbrica e la loromemoria per far posto al nuovo che avanza - un centro commerciale – e si ritrovano oggi con un bel regalonei polmoni: amianto. Che non smette mai di lavorare, e come una bomba ad orologeria, continuaimperterrito il suo ticchettìo.Protagonista del racconto è un operaio di nome Adriano, che, ironia della sorte, si chiama come il suopadrone, Adriano Cecchetti, figura mitizzata di buona razza padrona.E sono proprio i ricordi dell'operaio Adriano a scandire i ritmi e i tempi del racconto.Ricordi, privi di toni nostalgici, che a momenti si tingono di comicità, in altri si asciugano fino a toccare unadrammaticità assoluta. I treni, le rotaie, la fonderia, le chiacchiere negli spogliatoi,le cazzate dette per sfottersi e scacciare la fatica che ammazza, ed un sogno, il sogno più grande di tutti,quello del suo compagno boxeur: partecipare alle olimpiadi di Roma nel '60.E in questo doppio binario l' Adriano operaio ci racconta la sua storia, da una mattina di guerra del 1940,quando lui tredicenne entra a lavorare in fabbrica, ad una mattina di oggi, quando si alza presto per andare dal medico.

Recensione di Ira Rubini - Teatro Popolare


mercoledì 15 ottobre 2008

critica di Ugo Ronfani a "Sogno di una notte di mezza estate"



Ugo Ronfani,
Il Giorno, 15 ottobre 2008
(Cliccate sull'immagine per vedere l'articolo originale!)

per la scomparsa di gianni palladino



A Gianni Palladino


Eri capace di battute feline pari solo alla zampata di quando praticavi l'area di rigore.....Dell'umano, di cui eri un acuto conoscitore, facevi parte di una categoria in via d'estinzione: quella dei buoni!
Renato Sarti e Bebo Storti

domenica 5 ottobre 2008

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE


dal 10 ottobre al 2 novembre 2008 – in prima nazionale
al Crt Teatro dell’Arte – Viale Alemagna 6, Milano

Una produzione Teatro della Cooperativa
con il contributo di
Provincia di Milano – Settore Cultura
Provincia di Milano – Settore Pace, Partecipazione e Cooperazione internazionale
Comune di Milano – Settore Tempo Libero
in collaborazione con
Accademia di Belle Arti di Brera
Civica Scuola D’ Arte Drammatica Paolo Grassi
Associazione Culturale Eclettica&Media

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
di William Shakespeare
traduzione, adattamento e regia Renato Sarti

con Sara Bellodi, Marco Brinzi, Antonio Casella, Giorgia Coco, Martina De Santis, Rufin Doh Zéyénovin, Federica Fabiani, Silvana Figueira de Oliveira, Mario Gualandi, Sonia Litrico, Fabrizio Lombardo, Milvys Lòpez Homen, Marta Marangoni, Rossana Mola, Elena Novoselova, Dijana Pavlovic, Domenico Pugliares, Sara Urban

scene: Edoardo Arcuri, Marika Cosenza, Irene Di Marca, Jonathan Nava, Anna Tirloni
costumi: Erica Sessa, Saverio Assumma, Alessandra Pievo, Chiara Luna Mauri, Anna Sances
coordinati da Paola Giorgi, Carlo Sala, Vittoria Papaleo
(Accademia di Belle Arti di Brera)
musiche: Carlo Boccadoro
suoni: Luca De Marinis
assistenti alla regia: Marco Di Stefano, Riccardo Pippa



Anche se le frontiere cadono, la parola sconfinamento sa di azzardo, di pericoloso, specie se la frontiera in questione non divide le nazioni ma i territori della mente e dell’immaginario.
Esiste la tentazione. Esistono le tentazioni.

Nel misterioso e magico mondo della notte de Sogno di una notte di mezza estate confluiscono le realtà, i personaggi e gli immaginari più diversi: Teseo il duca di Atene, Ippolita la regina delle amazzoni, rozzi artigiani, giovani cortigiani viziati che si cacciano nei guai da soli, strani esseri, fate e folletti capaci di ogni tipo di incantesimo. A causa del succo del fiore magico che fa innamorare perdutamente, le coppie degli innamorati si dividono e si riuniscono in breve tempo e Titania, la bellissima regina della notte, per volere del suo truculento sovrano Oberon, finirà fra le braccia di un essere dalle fattezze di un somaro. In questa calda notte d’estate l’ordine si intreccia con l’irrazionale più trasgressivo, il chiarore dell’albeggiare con il buio più profondo delle tenebre, il Gesetz des Tages apollineo con Leidenschaft zur Nacht dionisiaco.

Un apparente guazzabuglio. Solo apparente però perché il Sogno di una notte di mezza estate è una delle analisi più scioccanti e lucide della realtà: un meraviglioso gioco teatrale, popolare, lieve e comico, che non deve trarre in inganno.
L’opposizione tra normalità e anormalità è qualcosa di ben più complesso e non si può esaurire sul piano morale. Il Sogno tratta del confine sottile che separa e congiunge la realtà e il sogno, il quotidiano e il mito, ciò che accettiamo e ciò che neghiamo a causa di certe convenzioni sociali, svelando così tutta la fragilità di questa distinzione. Questo capolavoro, a distanza di secoli, rimane un’autentica mina vagante posta dal buon vecchio William sotto le poltrone dei nostri comodi salotti.
Renato Sarti

Lo spettacolo Sogno di una notte di mezza estate nasce con l’intento di far convergere, intorno ad un progetto comune, giovani attori - italiani e stranieri - registi e drammaturghi attivi nell’area milanese.
La compagnia, diretta da Renato Sarti, si compone di 18 attori – un terzo stranieri (Costa D’Avorio, Russia, Serbia, Brasile, Cuba), due terzi donne - tra i quali se ne contano sette provenienti dalla Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi.
Al progetto hanno collaborato, in qualità di scenografi e costumisti, gli studenti del Corso di Tecniche di Elaborazione del Costume dell’Accademia di Belle Arti di Brera (coordinati da Paola Giorgi e Carlo Sala), in qualità di aiuti e assistenti alla regia e drammaturgia alcuni diplomati della Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi e alcuni studenti del Corso di Tv, Cinema e produzione multimediale dell’Università IULM di Milano.

Il nuovo spettacolo del Teatro della Cooperativa sarà presentato al CRT/Teatro dell’Arte in apertura della nuova Stagione, in prima nazionale

Orari spettacolo:
feriali ore 20.45
festivo ore 16.00

Prezzi: 18 / 12 / 9 / scuole 7,5
Il Teatro della Cooperativa
è lieto di invitarVi
mercoledì 8 ottobre 2008, ore 11
presso Palazzo Reale
- Sala Conferenze, Piazza Duomo 12, Milano -

alla conferenza stampa di presentazione
della STAGIONE '08 -'09

venerdì 3 ottobre 2008

DANILO DOLCI

E' VIETATO DIGIUNARE IN SPIAGGIA.
Ritratto di Danilo Dolci
scene e costumi Andrea Viotti
musiche J.S. Bach, Antonio Di Pofi

produzione Teatro della Cooperativa col contributo della Provincia di Trieste- Assessorato alle Politiche di Pace e Legalità e in collaborazione con Mittelfest 2007 e Teatro Miela di Trieste

testo Renato Sarti, Franco Però
con Paolo Triestino

regia Franco Però

e con
Alessio Bonaffini, Diego Gueci, Renzo Pagliaroto, Domenico Pugliares, Francesco Vitale

scene e costumi Andrea Viotti
musiche J.S. Bach, Antonio Di Pofi


Elio Vittorini, Giorgio Napolitano, Norberto Bobbio, Aldo Capitini, Furio Colombo, Carlo Levi, Bruno Zevi, Padre David Maria Turoldo, Don Zeno Saltini, Bertrand Russell, Jean Paul Sartre, Luca Cavalli Sforza, Giacomo Manzù, Aldous Huxley, Erich Fromm, Vittorio Gassman, Sir Laurence Olivier, Joan Baez, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri. Può una persona che è stata in contatto ed ha avuto collaborazioni con personalità di tale levatura, riconosciuta a livello internazionale, più volte candidata al Premio Nobel per la Pace, vincitrice del Premio Lenin, essere quasi del tutto cancellata dalla memoria collettiva? Nel nostro paese sì. E molto spesso tocca al mondo dell’arte ridare vita a figure importanti che le istituzioni non hanno saputo - o voluto - mantenere vive. Anche se nella sua vita Dolci è stato architetto, sociologo, pedagogo, poeta, e si è occupato dei problemi della fame in Sicilia, dell’acqua, della mafia, della comunicazione di massa, “È vietato digiunare in spiaggia” tratta soprattutto del famoso processo che subì per aver organizzato lo sciopero alla rovescia il 2 febbraio 1956. L’articolo 4 della Costituzione sancisce: La Repubblica italiana riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società. Per protestare contro la disoccupazione e la miseria, invece di incrociare le braccia o assaltare sedi padronali o istituzionali, era intenzione dei manifestanti protestare in modo assolutamente pacifico, sistemando una vecchia strada impraticabile. L’azione non violenta non fu portata a termine per l’intervento delle forze dell’ordine. Dolci fu incarcerato, processato e, nonostante l’arringa in sua difesa fosse pronunciata da Calamandrei - uno dei padri della Costituzione Italiana – condannato. Un paradosso che si fa teatro, capace di evocare dai piccoli fatti quotidiani ai grandi dilemmi, l’Italia lacerata di quei tempi. La ricostruzione del processo e della realtà in cui si svolsero i fatti scorre, alternando poesie di Dolci, filastrocche dei cantastorie, arringhe degli avvocati e requisitorie del Pubblico Ministero (raffinati esempi dell’arte oratoria), pregnanti testimonianze dei contadini di Partinico, siparietti brechtiani che ricordano la tecnica recitativa estraniata dei Pupi siciliani. Sul palco da una parte cinque attori che di volta in volta danno voce ai poveri, agli avvocati, al pubblico ministero, agli onorevoli che, dopo l’arresto di Dolci, infiammarono la Camera e il Senato con vibranti interpellanze parlamentari; dall’altra un attore, Paolo Triestino, nella figura di Dolci, che ascolta, comprende, traduce in lotta non violenta e amplifica a livello nazionale le tragedie della Sicilia affamata e violenta degli Anni Cinquanta. Franco PeròRenato SartiIl ruolo di Calamadrei sarà interpretato ogni sera da personalità diverse che si sono contraddistinte nella difesa della Costituzione, dei diritti civili e della pace: fra gli altri Fausto Bertinotti, Omero Antonutti, Gianni Barbacetto, Augusto Bianchi, David Bidussa, Norina Brambilla Pesce (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), Gian Carlo Caselli, Lucia Castellano (Casa Circondariale di Bollate), Gherardo Colombo, Vincenzo Consolo, Cecilia Di Lieto (Radio Popolare di Milano), Daniela Dolci, Nedo Fiano, Don Gallo, Luigi Ganapini (Fondazione ISEC – Istituti per la Storia della Resistenza), Carlo Ghezzi (Fondazione Di Vittorio), Carlo Lucarelli, Dacia Maraini, Chiara Marchini (Emergency), Lidia Menapace, Vera Michelin Salomon (Associazione Nazionale Ex Deportati), Raffaele Morvay, Moni Ovadia, Leoluca Orlando, Edda Pando (Arci), Livia Pomodoro, Virginio Rognoni, Armando Spataro, Marco Travaglio, Giuliano Turone.


E' VIETATO DIGIUNARE IN SPIAGGIA.
Ritratto di Danilo Dolci

(…) Questi fatti lontani ma non dimenticabili sono rievocati con molto brio nel miglior spettacolo di politica illustrata che si veda da tempo.(…) Benchè a senso unico, né data la materia, altro atteggiamento sembrerebbe concepibile, l’apologo evita ogni grevezza didascalica ricorrendo all’umorismo: le scenette brechtiane sono introdotte e recitate da cinque attori siciliani tutti molto vivaci e molto spiritosi, uno dei quali fa da cantastorie mentre gli altri diventano con disinvoltura contadini analfabeti ( di quelli che Dolci riuniva per scambi di opinioni che avevano funzioni maieutiche), agenti, funzionari e via dicendo.(…) Il copione è ricco di battute spassose, quasi tutte provenienti dai verbali dell’epoca, e i circa 80 minuti scorrono leggeri e terribili (quella cari signori, è la nostra Italia).
(Masolino D’Amico, La Stampa - 21 novembre 2007)

(…) Oggi che il suo nome sembra dimenticato, questo spettacolo, presentato come un album di cantastorie che riproduce in scena alcuni momenti della vita pubblica di Danilo Dolci, riempie in parte questa dimenticanza. Strutturato come una rivista popolare E’ vietato digunare in spiaggia può contare su degli interpreti di lingua siciliana a loro agio in quel mondo rude di pescatori che affiancano il bravo Paolo Triestino nel ruolo di Dolci. (…) Da vedere per ricordare e conoscere.
(Maria Grazia Gregori, l’Unità - 3 dicembre 2007)


(…) Ripara all’oblìo uno spettacolo-ritratto di Renato Sarti e Franco Però, che firma la regia:«E’ vietato digiunare in spiaggia»(…) Doppio lo spettacolo: la scena, dove Paolo Triestino è Dolci con sobrietà e fermezza, e nella sala, dove un pubblico popolare manifesta adesione e calore (…) Lo spettacolo ha saputo evitare il rischio del medaglione agiografico; Paolo Triestino è stato discorsivo e spontaneo anche nei momenti didattici (…) E gli attori che erano il triplice coro della vicenda – braccianti e pescatori siciliani, poliziotti e magistrati – hanno avuto accenti genuini di verità (…).
(Ugo Ronfani, Il Giorno - 28 novembre 2007)

(…) Tutto questo rievoca il testo di Renato Sarti da cui è nato lo spettacolo (… e la regia di Franco brechtianamente povera e scarna, con i siparietti, il divertente va e vieni della finzione e la bella trovata di far recitare l’arringa di difesa per Dolci che Piero Calamandrei fece nel processo del ’56 - arringa piena di una sana, bella passione civile - a persone di oggi che hanno dimostrato col proprio lavoro di avere altrettanta passione.
(Anna Bandettini, La Repubblica - 17 novembre 2007)

(…) La manifestazione fu vietata, e la musica di Bach che Dolci aveva fatto ascoltare nella spiaggia di San Cataldo si ritirò all’orizzonte. Come si è ritirata per molti anni dalla memoria la figura stessa di Danilo Dolci, che lo spettacolo ha avuto il merito di far riapparire dietro ai sipari di una fantomatica opera dei pupi, nella veste di dissidente mite osannato dagli intellettuali europei e preso a calci dalla polizia.
(Katia Ippaso, Liberazione - 18 ottobre 2007)


(...) Il copione è ricco di battute spassose, quasi tutte provenienti dai verbali dell’epoca, e i circa 80 minuti scorrono leggeri e terribili (quella cari signori, è la nostra Italia).
(Masolino D’Amico, La Stampa - 21 novembre 2007)

IO SANTO TU BEATO

IO SANTO, TU BEATO (risate)

Voce registrata DANIELE LUTTAZZI, scene e costumi CARLO SALA, musiche CARLO BOCCADORO

produzione Teatro della Cooperativa

IO SANTO, TU BEATO (risate)
con Renato Sarti, Bebo Storti

e con Delma Pompeo e i Riddle
voce Radiomariacensura di Daniele Luttazzi
testo e regia Renato Sarti
con il prezioso contributo di Bebo Storti

scene e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro

Da anni Renato Sarti traduce in linguaggio teatrale i grandi temi della storia e della vita (deportazione, antifascismo, immigrazione). Con questo spettacolo si affronta, attraverso gli elementi della commedia dell’arte e della maschera, una tra le più grandi tematiche di ogni tempo: la discrasia fra coloro che, in nome della fede e della spiritualità, prestano quotidianamente la loro opera nel sociale, e i vertici della gerarchia ecclesiastica.Pio XII e Padre Pio si incontrano in un ipotetico aldilà. Il primo parla un latino maccheronico, il secondo si esprime in dialetto pugliese. Dapprima i due rievocano alcune pagine della storia della Chiesa: inquisizione, crociate, vita dissoluta di alcuni papi, discriminazione verso le donne, recenti casi di pedofilia.Nel frattempo, scoprono che - siccome Papa Giovanni Paolo II ha fatto 482 santi e 1338 beati - l’accesso al Paradiso è intasato e al momento è rimasto disponibile un solo posto. Dopo i convenevoli di rito, tra i due si scatena una contesa senza esclusione di colpi. Papa Pacelli, pur riconoscendo a Padre Pio le sue indiscutibili doti, non gli risparmia l’accusa di aver trasformato San Giovanni Rotondo nella Las Vegas del Gargano, alimentando un business paganeggiante in stridente contrasto con il voto francescano di povertà. Incalzato dalle accuse, Padre Pio passa al contrattacco: pur non negando che durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di ebrei, grazie all’aiuto di sacerdoti e suore, abbiano trovato rifugio presso parrocchie e nei conventi, gli rammenta il suo silenzio rispetto alla Shoah e l’avallo di importanti esponenti della Chiesa nei confronti del nazismo. A dirimere la contesa, con l’aiuto del pubblico, arriverà Dio in carne ed ossa.Per secoli la Chiesa ha osteggiato il teatro e demonizzato la Commedia dell’Arte, che sovvertiva i valori andando contro l’ordine costituito e il potere ecclesiastico allora dominante.Per secoli gli attori sono stati seppelliti in terra sconsacrata, hanno visto censurati i propri spettacoli, sono stati costretti ad autentiche peregrinazioni e alla fame. Che sarà mai, dunque, se per una volta il teatro si prende una rivincita, specie se lo fa attraverso gli elementi tipici della Commedia dell’Arte, attraverso lo sghignazzo e la scurrilità, lo sberleffo e la maschera, la gestualità ed un forte coinvolgimento del pubblico.Ben sapendo che la farsa è uno dei rivelatori più sensibili della realtà, l’obiettivo non è attaccare un sentimento profondo come quello della fede, ma piuttosto analizzare criticamente il rapporto spesso contraddittorio tra gli uomini di Chiesa che operano nel sociale e sono in prima linea fra gli ultimi della terra e i vertici della gerarchia vaticana.Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi: noi siamo contrari a questo tabù. Nella speranza di non incorrere nello stesso pericolo del clown Leo Bassi, che ha rischiato di saltare in aria per una bomba collocata nel teatro dove recitava una piece dissacrante sulla Chiesa, Io santo, tu beato…risate. (Renato Sarti)In scena, oltre ai protagonisti Renato Sarti (Pio XII) e Bebo Storti (Padre Pio), la cantante Delma Pompeo, mentre Daniele Luttazzi presterà la sua voce per le notizie di Radiomariacensura; le musiche originali sono di Carlo Boccadoro e le scene di Carlo Sala.

LA NAVE FANTASMA

LA NAVE FANTASMA

Premio Gassman/Città di Lanciano 2005
di Giovanni Maria Bellu, Renato Sarti e Bebo Storti

regia Renato Sarti
con Bebo Storti, Renato Sarti

disegni Emanuele Luzzati
musiche Carlo Boccadoro


PREMIO GASSMAN / Città di Lanciano 2005 – Miglior Testo Italiano

Il 25 dicembre del 1996, al largo delle coste siciliane, affondò un piccolo battello carico di migranti provenienti dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Le vittime furono 283: la più grande tragedia navale avvenuta nel Mediterraneo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nonostante le precise testimonianze dei superstiti, autorità italiane e mass media, eccetto rare eccezioni (Livio Quagliata de Il Manifesto, Dino Frisullo di Senza Confine), non se ne occuparono la tragedia del Natale 1996 divenne il naufragio fantasma.Gli stessi pescatori della zona, che recuperarono decine di cadaveri nelle reti a strascico, temendo conseguenze per la loro attività, li ributtarono sistematicamente in mare. Solo cinque anni dopo, con un reportage reso possibile dalla testimonianza del pescatore di Portopalo Salvatore Lupo, il quotidiano La Repubblica, attraverso un’inchiesta del giornalista Giovanni Maria Bellu, riuscì a individuare e filmare il relitto.Nel giugno del 2001 le immagini della nave fantasma fecero il giro del mondo, ma - nonostante l’appello di quattro premi Nobel italiani (Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia) e alcune interpellanze parlamentari – ancora nulla è stato fatto per recuperare il relitto e ri-consegnare questo episodio alla Storia senza menzogne ed omertà. La nave fantasma è una sintesi drammatica della vasta problematica connessa al tema dell’immigrazione: la disperazione dei migranti, il silenzio delle autorità e dei mass media, la ferocia dei trafficanti di esseri umani, la terribile indifferenza e paura della nostra società. Benché basato su una rigorosa cronaca degli eventi – tradotta sulla scena attraverso i racconti dei protagonisti, ma anche con l’utilizzo di materiale video e la creazione di piantine e percorsi tramite videografica, su disegni di Emanuele Luzzati - l’intento registico è quello di fare ricorso a tutti gli elementi tipici del teatro comico e del cabaret quali l’improvvisazione e il rapporto continuo e diretto con il pubblico.In scena gli stessi Bebo Storti e Renato Sarti che, in una sorta di cabaret-tragico estremo e scioccante, coinvolgeranno gli spettatori nella rievocazione di una tragica vicenda e nella riflessione su uno degli argomenti più scottanti dei giorni nostri: toccherà infatti loro rispondere ai quesiti di un ironico e paradossale quiz televisivo, ma anche restituire la testa staccatasi dal corpo martoriato di un manichino-immigrato colmo d’acqua; così come - in parte - il difficile compito di ricreare, nella scena finale, l’inferno che coinvolse i 283 disperati del battello F-174.

LA NAVE FANTASMA
Premio Gassman/Città di Lanciano 2005
Renato e Bebo, in uno spettacolo esilarante ma anche commovente, (…) ci ricordano la nostra ignoranza sulla realtà dell’immigrazione e sulle sue cause (…) non attraverso le chiacchiere ma con la lingua del teatro – ed è vero teatro. Semplice, ruspante, povero, ma teatro. Il teatro sono due attori, due uomini che si giocano tutto, come qui, per una causa in cui credono.
(Luca Doninelli, Avvenire, 6 Novembre 2004 )

Due ore e mezzo di colpi di scena, di passaggi improvvisi dal tragico al comico al grottesco.(…) Chi recita si diverte e a tratti soffre come chi partecipa. Suda, cambia le battute, si confonde, accetta che siano gli eventi a disegnare ogni giorno un nuovo canovaccio.
(Stefano Galieni, Liberazione, 11 Novembre 2004 )

(…) Uno spettacolo a capitoli che non lascia nulla al caso, semplice e immediato, forte e civile. Un cabaret tragico (…) dove si ride perfino di fronte ai fatti più crudi grazie all’impagabile capacità di dire cose feroci con un’ironia dissacrante dove il riso suona più sinistro di un grido. E’ un riso nero, luttuoso quello provocato da Renato Sarti e da Bebo Storti, in scena per circa tre ore, bravissimi a cambiare a vista personaggi e pelle. (…) Grazie a Sarti, Storti e Bellu che ci hanno ricordato che il teatro è anche un rito pubblico, politico, laico.
(Maria Grazia Gregori, L’Unità, 17 Novembre 2004 )

Storti e Sarti sono bravissimi, il primo cinico, capace di satira feroce, di imitazioni strepitose, il secondo pacato maneggia con cura fatti, dati e sentimenti. Si ride amaramente e si riflette sulla nostra miseria in uno spettacolo che si snoda in un subisso di dati e informazioni che diventano teatro. (…) Uno spettacolo di impegno civile che riesce ad essere specchio della pavida opportunista coscienza della nostra società. Da non perdere.
(Magda Poli, Corriere della Sera, 24 Novembre 2004 )

Sarti has skillfully culled the absurd elements of the ensuing oblivion into which the shipwreck was lost, and deftly leads the audience to a state of soul-searching on the tragedy.(Elisabetta Povoledo, International Herald Tribune, 8 Dicembre 2004 )

Lo spettacolo preferisce partire dalla comicità vicina all’assurdo con cui Dario Fo raccontava in tempo reale gli anni di piombo coinvolgendo il pubblico. (…) Alla compostezza di Renato Sarti si contrappone un Bebo Storti dilagante nei suoi ininterrotti trasformismi.
(Franco Quadri, La Repubblica, 15 Novembre 2004 )

L’Odissea moderna finisce a Portopalo.
(Arianna Di Genova, Il Manifesto, 16 ottobre 2005 )

Dire che “narrano” come sempre più spesso il teatro italiano in tempi di carestia, è fargli torto. La nave fantasma il suo naufragio un po’ lo racconta, ma soprattutto lo mima, lo agita come una scatola da cui cadono gag, improvvisazioni, sberleffi e schiaffi (molti schiaffi) menati dallo straordinario mimetismo linguistico di Bebo Storti, impegnato in una estenuante sfilata di maschere: preti siculi, ammiragli romaneschi, politici lumbard.
(Attilio Scarpellini – il Riformista, 26 ottobre 2005)

MAI MORTI
Mai morti era il nome di uno dei più terribili battaglioni della Decima Mas: a questa formazione e al magma inquietante del pianeta fascista il protagonista guarda con delirante nostalgia, ripercorrendo episodi della nostra storia recente, dal Ventennio fino ai giorni nostri.

Un monologo che cerca di rammentare, a chi se lo fosse dimenticato o non l'avesse mai appreso, che la parola antifascismo ha ancora un fondamentale e profondo motivo di esistere.

produzione Teatro della Cooperativain collaborazione con Teatridithalia e Teatri90/Maratona di Milano


MAI MORTI
testo e regia Renato Sarti

con Bebo Storti


Mai Morti è uno spettacolo che fa discutere, arrabbiare, divide, emoziona e commuove. Con una scrittura evocativa (una sorta di affabulazione nera), Renato Sarti ripercorre la nostra storia recente attraverso i racconti di un uomo mai pentito, per riflettere su quanto – in Italia - razzismo, nazionalismo e xenofobia siano ancora difficili da estirpare. È affidato a Bebo Storti il difficile compito di dare voce a questo nostalgico delle “belle imprese” del ventennio fascista, oggi impegnato in prima persona a difesa dell’ordine pubblico contro viados, extracomunitari, zingari e drogati. Mai Morti era il nome di uno dei più terribili battaglioni della Decima Mas. A questa formazione, che operò a fianco dei nazisti nella repressione antipartigiana, e al magma inquietante del pianeta fascista il personaggio guarda con delirante nostalgia. Durante una notte milanese dei nostri giorni il protagonista si abbandona a ricordi sacri, lontani, cari. Evoca il bell’agire della Ettore Muti, banda fascista che Mussolini elevò a legione autonoma che rimarrà tragicamente nella memoria della città per la ferocia delle torture praticate a centinaia di antifascisti. Rivive la strage della comunità copta di Debrà Libanos, a novanta chilometri da Addis Abeba, dove nel 1937 il viceré Rodolfo Graziani e il generale Maletti Pietro Senior si resero protagonisti dell’eccidio di 2000 fra fedeli e diaconi. Accenna all’uso indiscriminato e massiccio dei gas da parte dell’esercito italiano in Africa contro le popolazioni civili. E ancora rievoca le più orribili imprese portate a termine dalla Decima Mas nel Canavese e in Friuli nel 1944. Anche il passato più prossimo, e il nostro presente, animano i suoi sogni a occhi aperti: dalla Milano incandescente del 1969 quando “ai funerali di Piazza Fontana si doveva fare il gran botto finale. (…) Allora si che si riusciva a scaraventare anarchici tranquillamente dalla finestra, raccontare frottole a destra e a manca e farla comunque sempre franca” fino ai fatti agghiaccianti del G8 di Genova e alla morte di Carlo Giuliani.Un monologo che cerca di rammentare, a chi se lo fosse dimenticato o non l’avesse mai appreso, che la parola antifascismo ha ancora un fondamentale e profondo motivo di esistere.


MAI MORTI
RASSEGNA STAMPA ESSENZIALE

(…) Un’ora e dieci minuti. Il meccanismo dello sdoganamento svelato da un superbo lavoro teatrale che rende lampante il percorso dalle stragi africane a Salò, dalle torture delle nostre (nostre!) SS, al volo da una finestra della questura di Milano, dai “rumori di sciabole” alla Diaz. Riannodare i fili, spiegare, ridire i nomi. (…) Capolavoro di Renato Sarti. Questa è una grande lezione di storia. Questo andrebbe trasmesso in prima serata e portato nelle scuole.
(Silvia Ballestra , l’Unità, 2 marzo 2002)

(…) Bebo Storti con bella incisività fa vivere il suo tristo personaggio tra freddezza ed esaltazione e disvela la volgarità d'animo, la pochezza intellettuale, la protervia di chi divide il mondo tra uomini e non uomini. «Mai morti» è rovente materia per riflettere sul nostro passato e per riuscire a decifrare il senso della Storia che si sta formando oggi, sotto i nostri occhi, nel nostro quotidiano.
(Magda Poli, Corriere della Sera, 28 febbraio 2002)

Un monologo istruttivo si diceva, per chi non ricorda e per chi non ha mai saputo. Uno di quelle puntualizzazioni necessarie per capire quanto noi italiani brava gente non lo siamo mai stati. (…) Il risultato per lo spettatore è un'esperienza intensa, tesa. Lo chagrin sale piano piano, battuta dopo battuta, ma alla fine si resta attoniti. In silenzio. Ed è solo teatro, per ora.
(Pietro Cheli,Diario n. 8, 22 febbraio 2002)

(…) quelle parole lasciano la gabbia della pagina scritta per invadere gli occhi e le orecchie, per coinvolgere i sensi di chi ascolta (…) Alla fine, la tensione emotiva si è sciolta in un lungo applauso liberatorio. Il transito era avvenuto, il passato era arrivato nel presente, aveva smesso di essere muto, monumentale, inaccessibile.
(Giovanni De Luna, La stampa 10 marzo 2002)

C'è un teatro che è memoria, tentativo di non perdere le fila di ciò che è avvenuto e ci ha portati ad essere ciò che siamo, collettivamente e individualmente. Un teatro che è denuncia, scandalo, esibizione del dolore. Senza perdere il suo linguaggio, un teatro del genere rinuncia alla leggerezza, al divertimento, all'evasione nei mondi possibili della finzione. E si fa testimonianza, magari limitandosi per ragioni narrative a un sottile rivestimento di invenzione. Tale è stato talvolta il teatro di Dario Fo, e tale è, in un genere del tutto diverso, il teatro di Renato Sarti. (…) se ne fa portatore un attore popolare e dalle forti capacità trasformiste come Bebo Storti. (…) Il risultato è una denuncia lucida, durissima, piena di fatti, di date, di storie: la miglior smentita di ogni ipocrita revisionismo storico.
(Ugo Volli, La repubblica, 3 marzo 2002)

Nome di battaglia "Lia"



Una produzione Teatro della Cooperativa

NOME DI BATTAGLIA “LIA”

testo e regia
Renato Sarti
con
Marta Marangoni, Rossana Mola, Renato Sarti

musiche originali Carlo Boccadoro
video BUZZ 2001
con il patrocinio di

Associazione Nazionale Partigiani Italiani
Associazione Nazionale Ex Deportati
Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione Italiano
Federazione Italiana Associazioni Partigiane
Laboratorio Nazionale per la Didattica della Storia


Forse a volte ci si dimentica delle storie apparentemente periferiche. Ci si dimentica che al di là dei momenti alti e celebrativi, esiste un mondo fatto di episodi che fanno parte di una quotidianità ai più sconosciuta ma dal valore estremamente significativo. All’interno della grande pagina della Resistenza, il quartiere di Niguarda a Milano e le donne dei suoi cortili, ebbero un ruolo particolare. Niguarda si liberò il 24 aprile 1945, con un giorno di anticipo su Milano. E fu proprio in quel giorno che si consumò uno degli episodi più tragici della Liberazione della città: colpita al ventre da una raffica di mitra di nazisti sulla via della fuga, moriva - incinta di otto mesi - Gina Galeotti Bianchi, nome di battaglia Lia, una delle figure più importanti del Gruppo di Difesa della Donna. Quest’ultimo vantava a Milano ben 40.000 aderenti, oltre 3.000 attiviste, assisteva i militari abbandonati da un esercito allo sbando, era parte integrante dei Gruppi Volontari della Libertà e del comitato cittadino del C.L.N., forniva staffette in operazioni delicate, stampava Noi Donne, giornale precursore dei temi dell’emancipazione, partecipava anche agli attentati. Inoltre, sulle spalle delle donne ricadeva gran parte del peso della realtà quotidiana, fatta di bambini e anziani da accudire nel freddo, nella fame e nelle malattie.Un ritratto tragico e insieme vivace della Niguarda resistente, dedicato alle donne e al loro coraggio.Un testo basato su testimonianze dirette del nostro recente passato, che,attraverso la riscrittura drammaturgica, si fa tragedia, dolore antico, arcaico.




Emblematiche le ultime parole di Lia prima di morire: “Quando nascerà il bambino non ci sarà più il fascismo”.


Renato Sarti




NOME DI BATTAGLIA LIA
RASSEGNA STAMPA ESSENZIALE



(…) Renato Sarti è in qualche maniera un erede diretto delle teorie teatrali di Pasolini, perché scrive i suoi testi basandosi sulla parola (…) uno spettacolo di grande emozione (…) perché fa capire come si possa far teatro in maniera civile e come sia importante fare teatro in maniera civile. Tutto quanto il plauso a Renato Sarti e alle due attrici che sono in scena con lui, Rossana Mola e Marta Marangoni.
(Sandro Avanzo, Radio Popolare, 17 maggio 2003)

(…) Renato Sarti ricostruisce una storia che, in quanto vicenda “minore” della Resistenza, correva il rischio di essere dimenticata. (…) Marta Marangoni e Rossana Mola, sul palco con Sarti, sono brave e generose nel suggerire i differenti caratteri delle donne a cui danno voce, così convincenti da far dire a Nori Brambilla Pesce, una delle più intrepide gappiste milanesi: “E’ stato proprio così, eravamo giovani, ci sentivamo belle, allegre. E’ giusto che venga fuori anche questa nostra normalità. Non eravamo incoscienti, sapevamo di correre dei rischi. Ma volevamo un’Italia diversa, libera, e non c’era altra scelta oltre a quella di resistere e combattere”.
(Roberta Migliavacca, Diario, 27 Febbraio 2004)

(…) Uno spettacolo importante che racconta una triste e bellissima storia di libertà, (…) che con perizia drammaturgica Renato Sarti fa emergere da testimonianze di vecchie compagne, da libri sulla Resistenza (…) lontana da retoriche di facili eroismi racconta la dignità di un’idea di libertà e, in tempi in cui si tende a ridurre la Resistenza a feroce guerra civile e il regime fascista a blanda dittatura, riscoprire figure come quella di Lia e la storia di un quartiere come Niguarda, fa bene all’anima, al senso critico, alla memoria.
(Magda Poli, Corriere della sera, 13 febbraio 2004)

(…) Sarti dimostra una notevole abilità nella costruzione drammaturgica ritraendo con pochi precisi tocchi un’epoca e raccontandoci non solo l’eroismo di chi si impegnò nella lotta per la liberazione ma anche i momenti più quotidiani, le piccole cose che rendevano più lieve la vita (…)
(Valeria Ravera, Tuttoteatro, 23 maggio 2003)

(…) E’ uno spettacolo che dovrebbero vedere tutti, che dovrebbe essere portato nelle scuole e nelle fabbriche. Perché il suo messaggio è il più importante di tutti per un paese democratico: l’orgoglio della libertà, l’onore di sacrificarsi per la libertà.
(Ugo Volli, La Repubblica, 10 Febbraio 2004)

Gli eroismi anonimi delle donne che agivano contro la fame e le malattie dei bambini e degli anziani, che aiutavano al fuga dei predestinati ai lager, che cucivano le bandiere e i bracciale del riscatto evocano i sogni di un’umanità disperata e – senza sforzo – si traducono nella lingua popolare, con i fili d’oro del dialetto, della recitazione fervida, pulsante di Marangoni, di Mola e di Sarti.
(Ugo Ronfani – Il Giorno, 24 marzo 2005)

Per questo, per questo suo mostare la lotta di liberazione come momento di grande mobilitazione e condivisa partecipazione, oltre che per la teatralità con cui essa rivive sul palcoscenico, grazie anche alla bella e coinvolgente prova delle due interpreti Marta Marangoni e Rossana Mola e dello stesso autore e regista, Nome di battaglia Lia è uno spettacolo importante, di senso e di necessità.
(Mario Brandolin – Il Messaggero Veneto, 12 maggio 2005)