VIDEOCRACY, LA CENSURA
Chi in Rai ha detto no al trailer ha ammesso che in Italia... La visione di Videocracy, il film di Erik Gandini che sarà presentato al festival di Venezia, è sconvolgente perché tutto ciò che dice, tutto ciò che fa vedere è già ben conosciuto dagli italiani. Potrà stupire (o indignare, o inorridire, o far ridere) gli stranieri, ma non noi italiani: è la nostra vita, la nostra storia. Certo, fa impressione sentir cantare l'inno "Meno male che Silvio c'è", in un clima da regime al tempo stesso preoccupante e ridicolo. E fa impressione vedere il telefonino di Lele Mora che suona "Faccetta nera" con video di svastiche e croci celtiche. Il resto però lo conosciamo bene, lo abbiamo visto svilupparsi giorno per giorno, anno dopo anno. Ma proprio per questo è sconvolgente: poiché siamo dentro questa storia, essa non ci stupisce più, non c'indigna, non ci sconvolge; ma ecco arrivare un film made in Sweden che ci mette davanti a uno specchio e ci fa risvegliare dall'incanto, ci fa tornare a vedere in che situazione viviamo.
E meno male che ci sono gli uomini della Rai e di Mediaset a mettere nero su bianco la verità: sì, le motivazioni con cui i dirigenti della tv pubblica e privata hanno rifiutato il trailer di Videocracy sono da scolpire sulla pietra. Perché dicono, paradossalmente, la verità e accentuano la scossa provocata da questo film. Mediaset boccia il trailer sostenendo che è un attacco alla tv commerciale (dando per scontato dunque che la tv commerciale sia direttamente uno strumento politico, anzi partitico). La Rai fa di più. Per la Rai il trailer è da censurare perché è un «inequivocabile messaggio politico di critica al governo», dato che alterna immagini del film con dati statistici tipo «l'Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità»; oppure: «l'80 per cento degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione». È da censurare perché collega «la titolarità del capo del governo alla principale società radiotelevisiva privata» e dunque ripropone - pensate un po'! - la questione del conflitto di interessi. È da censurare perché il film potrebbe far pensare che «attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso».
È da censurare infine anche perché non accenna al caso Noemi e alle escort (per forza, il film è stato finito prima che scoppiasse lo scandalo), ma mostra programmi «caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime» e dunque «determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali» di Berlusconi «e al suo rapporto con il sesso femminile, formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell'attività di imprenditore televisivo». Non è straordinario? Il solerte funzionario Rai, più realista del suo re, imputa al film di essere profetico e di far pensare gli spettatori. Certo che, mentre il tempo passa, la situazione peggiora: un tempo il regime censurava i film e i programmi (da quello di Daniele Luttazzi a "Raiot" di Sabina Guzzanti, dal "Caimano" a "Viva Zapatero"). Oggi non sopporta neppure i trailer.
E intanto succedono altre cose: il capo del governo querela un giornale, Repubblica, solo perché si permette di fargli domande; il suo giornalista di fiducia per i momenti di difficoltà (Vittorio Feltri) lo vendica attaccando in maniera ignobile il direttore di Avvenire che si era permesso di riportare le critiche del mondo cattolico allo stile di vita del presidente del Consiglio; e Berlusconi, per non avere critiche in Europa, si spinge perfino a chiedere il silenzio dei commissari europei, pena il loro licenziamento. All'inizio c'erano i lustrini luccicanti delle tv mostrati da Videocracy. Oggi sotto quei lustrini si intravede sempre più chiaramente la vocazione irresistibilmente autoritaria di Berlusconi.
(29 agosto/1 settembre 2009)
www.societacivile.it
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