martedì 28 ottobre 2008

GIORGIO FELICETTI


APPUNTI DI RICERCA su VITA D'ADRIANO
di Giorgio Felicetti

Volevo fare un lavoro teatrale sugli operai. Che lavoro fai? Niente, faccio l’operaio. Come niente? La classe operaia! La classe operaia? Ma di che parli? Fatti capire! Non volevo spiegare il mondo da una sedia di palcoscenico. Pensavo ad un monologo sulla vita di un uomo: un operaio che aveva lavorato in una grande fabbrica del ‘900, una fabbrica da film, dove tutto era storia, una fabbrica con un forte legame con la terra e con la lingua di quest’uomo. Tutto mi portava alla Cecchetti, la seconda fabbrica più grande delle Marche, tra le più importanti industrie italiane del settore ferroviario. Una roba da 50.000 operai ed operaie. La nostra Fiat, la nostra Ansaldo, la nostra Italsider. Insomma, la Fabbrica. Luogo confinato in una terra ai confini. Sì perché ogni volta che penso alle Marche, penso sempre ad un confine, una periferia, un limite. Bella, ma di là, lontana. Se esiste una marchigianità e cosa sia, non lo so, questo mestiere mi ha fatto ormai troppo nomade, per indossare un’appartenenza. So che quando in un posto, quello che senti e quello che vedi ti provoca armonia, ti accorgi che lì come minimo ci sei nato. E se in un posto ci sei nato, prima o dopo ci ritorni. Ed io ci sono tornato alla mia maniera, col mio mestiere: inventando e raccontando storie. Sono partito alla cerca di una razza in estinzione: gli operai, quelli vecchi, quelli andati, quelli senza vergogna. Ho fatto lunghe interviste ai cecchettari, così chiamavano quelli che lavo-ravano lì dentro. Cominciavo a conoscere la grande fabbrica, i reparti, le storie dei binari, di treni malconci da riparare, i termini tecnici da usare, e pian piano, l’immagine di questa immensa mappa di industria e di fatica prendeva forma ai miei occhi. Centinaia di storie, di uomini, di episodi, di dignità spesso calpestate eppure ancora integre. Mi accompagnava, in questa ricerca, l’operaio Umberto Pancotto, mio paziente Virgilio, che ha saputo guidarmi in quei gironi infernali, tra fon-derie, falegnamerie, carpenterie, carri ferroviari. Ho incontrato l’operaio Pietro Emili, memoria storica della fabbrica, una vita nel sindacato e nell’impegno politico. A lui devo tanti particolari che so ora raccontare. Ho scoperto Augusto Coppini, il pugile operaio, forse la figura che più di tutte ha influenzato la nostra scrittura: l’Augusto di Vita d’Adriano è pro-prio lui, con i suoi sogni, le sue incazzature, la sua fisicità, il suo amianto, i suoi silenzi. Adriano usa una lingua “strana”, mai usata a teatro, questa specie di marchi-giano, tanto sconosciuto che sembra inventato, e in qualche maniera lo è. Ho dovuto lottare contro le mie resistenze di attore e scardinare la mia dizione accademica per ficcarmi in bocca una lingua madre così “impura”; e se ci sono riuscito, lo devo anche all’insistenza di Francesco Niccolini, a cui molto devo in termini di scrittura e di struttura di questo monologo, nonché al giovane ingegnere-scrittore Andrea Chesi. La parlata di Adriano mi permetteva immediatamente di abbandonare qualsiasi tono teatrale, arrivava così, senza pudore, come una confessione. Tra mille dubbi, bisognava capire se si era sulla giusta strada: ho comin-ciato allora a leggere questa storia ovunque, in casa di amici, in giardino, in sale di ascolto. Poi, le prove aperte a teatro. C’è stato il progetto di residenza nel bellissimo teatro delle Logge di Montecosaro, lì potevamo ospitare ogni sera, per circa un mese, tante persone, abitanti del luogo, donne, ragazzi, anziani perlopiù, che dopo la cena venivano a veder nascere uno spettacolo, che sembrava parlasse di loro. Una sera temeraria ho tentato pure un’uscita all’esterno: mi sono piazzato con una sedia nel bel mezzo di un’accesa partita di bocce, a chiedere ascolto. Temevo mi avrebbero preso a bocciate in testa. E invece, dopo il primo sconcerto e qualche bestemmia degli anziani giocatori, è cominciato a calare un silenzio che a poco a poco diveniva ascolto assoluto. Alla fine, applauso spontaneo, e la partita di bocce poteva velocemente riprendere. La strada era giusta. Si potevano invitare a teatro i cecchettari, sì, toccava agli operai, quelli veri, per una anteprima tutta per loro. Forse l’emozione mia più grande: recitare davanti ai protagonisti la loro storia. Negli occhi di quegli uomini, così scomodamente seduti da chiedere quasi scusa della loro presenza, tra arazzi e poltrone di lusso di un teatro storico, capivo stupore incredulità e orgoglio: essi vedevano la loro vita diventare un monumento grande un’ora. Tutte queste persone mi hanno insegnato il linguaggio della dignità. Lo spettacolo ha debuttato nella sua forma definitiva il 14 luglio 2007, nell’area delle ex fonderie Marinelli, nel cuore della vecchia Civitanova operaia, davanti a mille spettatori.


QUANDO C’ERA LA CLASSE OPERAIA
Prefazione di Angelo Ferracuti





Niente mi toglie dalla testa che l’impresa, e, nella sua forma più classica, la fabbrica fordista, lo stabilimento come luogo chiuso e inviolabile, ha una sua natura autoritaria. Varcati i cancelli, si entra in un altro mondo dove le regole, le leggi della società civile, non esistono più, e dove il più delle volte peggiorano le condizioni dell’individuo: si è assoggettati, dipendenti, maestranze. Ma anche la vita vissuta fuori, una volta si diceva la condizione operaia, diventa per l’individuo una sorta di stare al mondo, filtro assoluto del mondo attraverso uno status sociale particolare, fantasmatico eppure realistico alla massima potenza. Basterebbe leggersi le poesie di un poeta grandissimo, Luigi Di Ruscio, anche lui marchigiano, seppure trapiantato ad Oslo, in Norvegia, che dell’esperienza della fabbrica come epopea, come epica, ha lasciato libri indimenticabili e di potenza verbale impressionante, per dire che il luogo dove si lavora è assoluto e condiziona per sempre tutta l’esperienza umana. Che questo pensiero della fabbrica come luogo totale, come mondo nel mondo assoggettato al profitto sia di un’attualità sconcertante, me lo conferma il bel monologo scritto da Giorgio Felicetti, insieme a Francesco Niccolini ed Andrea Chesi, e da lui stesso portato in scena con estrema bravura. È l’esperienza di un operaio delle Officine Meccaniche Cecchetti di Civitanova Marche, il cecchettaro nella neve Adriano Campini, detto Ninì, che racconta i molti, e anche di più di quei molti che erano classe, sindacato, nell’accezione più pura e comunitaria di condivisione, di fratellanza, e chiude un cerchio epocale di parole innervato in tutto il ’900. Anche lui ha questa percezione: “Semo tutti lì per quei quattro soldi che te da’ a metà mese. Se non fosse per quello che, c’andresti lì dentro? Non lo di’ manco per scherzo. Invece lì dentro, in un mondo a parte, finisce che ce passi le giornate tue e alla fine si stato più tempo lì che da ogni altro posto.” Nel suo monologo Adriano li aggrega tutti i suoi compagni, li rinomina, ricorda con dolcezza e con rabbia i tempi andati, li ricorda al presente, a esperienza finita, e la memoria che resta lascia amari: “Hanno tirato su palazzi banche e supermercati, e adesso te pare che ’sta fabbrica non c’è stata mai. Un secolo per costruilla, sognalla, fadigacce, falla cresce, difendela e poi, vendi e compri e vendi e co’ ’na botta de ruspa spacchi tutto”. La voce-memoria li ricorda tutti: “Giovanni, Aurelio, Benito, Fernando e Peppino”, e poi il boxeur “Augusto, quello più compagno de tutti”, oppure Ciro “che lasciava lo stipendio alla Provvida”.La prima cosa che mi ha impressionato di questo testo è la lingua, molto lavorata e forte da un punto di vista espressivo. Forse per la prima volta anche la parlata marchigiana, maceratese, scansato un vecchio pudore, diventa una lingua letteraria e teatrale, la lingua vera dell’esperienza, del vissuto, e questa operazione mi pare sorprendentemente riuscita, capace di impennate comiche e liriche altrimenti intraducibili. Una lingua madre, quella parlata dai nostri vecchi, giustissima nell’interpretare l’oralità e la memoria del passato. Una lingua viva, pulsante, capace di radicarsi nell’esperienza, così come è accaduto in molto teatro di narrazione più recente (Paolini, Celestini), e in un testo bellissimo, scritto da Edoardo Albinati e Filippo Timi Tuttalpiù muoio, dove un’altra lingua poco frequentata e minoritaria, quella umbra, trova una felice sintesi espressiva vertiginosa, e anch’essa diventa miracolosamente un organismo linguistico profondo e contemporaneo.
Il monologo di Adriano aggrega tutto in un parlatorio diffuso e inarrestabile, il protagonista racconta e racconta infaticabile la propria storia che non è solo sua ma di una intera generazione di lavoratori, quelli nati nei primi anni del secolo, o ancora prima, passati attraverso uno spaccato d’epoca febbrile: dalla guerra alla presa di coscienza politica, agli scioperi, l’attentato a Togliatti e la belva-polizia scelbiana che uccide trecento operai nel sangue delle piazze d’Italia. Fin quando non arriva la beffa, l’amianto, per molti anni utilizzato nella fabbrica, qui nel fantomatico reparto 500 “quello che nisciù ha visto mai e che da frico me facìa paura solo a sentillo nominà.” L’amianto, appunto, la neve che il cecchettaro ha respirato: “a la Cecchetti c’è entrato nel ’56, come i compagni russi in Ungheria, e l’effetto, più o meno è stato quello. C’ha messo li stessi anni a distrugge tutto” è la sintesi più amara. Questo è stato il colpevole costo del Capitale in fatto di vite umane. E nei prossimi anni si prevedono i picchi maggiori di mortalità. “Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto” è la frase posta sotto il monumento alle vittime dell’amianto ai cantieri navali di Monfalcone. È dello scrittore Massimo Carlotto, anche lui autore di un testo teatrale su questo argomento. Parafrasando quella frase, per gli operai della Cecchetti si potrebbe dire: “Costruirono treni magnifici, li uccise la neve, li tradì il profitto”.





Postfazione di Francesco Niccolini
CRONACHE DI OPERAI E PENSIONATI






Credo di essere uno dei tantissimi lettori che ha amato Memorie di Adriano, questo sublime viaggio poetico nei ricordi di un imperatore romano offerti al proprio figlio. Un grande imperatore protagonista di una grande storia. Credo di aver letto quelle pagine almeno cinque o sei volte, dai venti ai trent’anni, affascinato dal tono intimo, quasi normale, che un uomo tut-t’altro che normale riusciva a usare per la sua vita. Un imperatore che si esprime come un poeta: «Animula vagula blandula… » Per gli strani destini e le fortune della vita, all’opposto di Marguerite Your-cenar – e con un pubblico infinitamente meno numeroso – mi è accaduto di lavorare a una grande quantità di storie piccole, di uomini che tutto furono fuorché imperatori: zeri assoluti, comprimari, nomi ignoti, persone che non hanno fatto la storia. Eppure che una storia hanno. Nel febbraio 2007 erano ormai alcuni mesi che stavo lavorando a un monologo su una storia di fabbrica per Giorgio Felicetti. Mentre ascol-tavo le parole di Andrea Chesi, generosissimo ricercatore-autore che mi ha affiancato in questa complicata avventura, ha cominciato a prendere corpo una curiosa idea: scrivere delle nuove memorie d’Adriano, un Adriano che come l’imperatore è a breve distanza dalla morte, ha un male dentro, non è ancora spacciato, ma che – invece d’essere imperatore – non è nulla. Operaio per quarant’anni. Alla Cecchetti. Civitanova Marche. Pensionato, capace di attendere la fine tenendo per mano la propria moglie. Forse meno triste dell’imperatore, solo e in attesa della stessa sorte. Dopotutto la morte ci porterà via tutti alla stessa, democraticissima maniera, imperatori scrittori attori popstar e operai. E se avremo la fortuna di restare lucidi e distaccati, imperatori o operai, forse potremo sperare di lasciare ai nostri figli parole dignitose. Esattamente come Adriano, detto Ninì, entrato alla Cecchetti durante la seconda guerra mondiale a tredici anni, e lì rimasto fino alla caduta del muro di Berlino. Il resto lo ha fatto UnoMattina o Sabato in famiglia, non ricordo bene. No, non sono un habitué di queste trasmissioni, tutt’altro. Però a volte mi capita, svegliandomi, quando sono in albergo, di accendere il televisore e – in assenza di un telegiornale – usare un programma qualunque come sottofondo per doccia e barba. Quella mattina, era marzo, stavo finendo la prima stesura di questa Vita d’Adriano. E, per grazia concessa, la televisione di stato decide di venirmi incontro: si parla d’amianto. Come posso non ascoltare, dato che da quando lavoro sulla Cecchetti di Civitanova proprio l’amianto è il tema centrale che però non riesco a tenerci dentro in nessun modo? Ecco la soluzione: il giovane specialista ne parla con grande serietà. Il pro-blema è enorme, e ormai non se lo nasconde più nessuno: in Europa ci aspettiamo decine di migliaia di morti per amianto nei prossimi anni. E in Italia? Solo in Italia più di ventimila. Silenzio in sala. Quasi freddo, gelo. Allora il medico decide di tranquillizzare lo spettatore: nessun problema per la gente normale, a morire saranno solo gli operai che lo hanno lavo-rato. Sospiro di sollievo in studio. Si può continuare tranquilli. E io resto di sasso. Come tranquilli? E gli operai? Quei ventimila operai ce li siamo dimenticati? E come si potrebbe sentire un ex operaio, arrivato all’età della pensione, che per abitudine o per caso ha sentito questo medico? In questi anni ho lavorato su tanti operai: quelli di Bagnoli, prepensio-nati a cinquant’anni, fieri della loro fabbrica e traditi da tutti. Quelli di Marghera, fradici di CVM. Quelli di Bhopal, massacrati insieme a tutto il quartiere dei poveri dal MIC. E l’operaio che amo di più, Gelmino Ottaviani, fabbrica Riello a Vicenza, sopravvissuto a tutto senza un’ora di straordinario e un fantastico senso del limite. Vecchi, giovani, mezza età, sono un coro di incazzatura, rassegnazione, indignazione, e uno strano sentimento da sopravvissuti senza privilegi. Ecco, questo Adriano Campini detto Ninì, figura totalmente inventata (eppure nulla di quello che dice lo possiamo considerare una balla), è la sintesi di tutti loro e il mio modo – da figlio che non ha mai dovuto sporcarsi mani e polmoni in fabbrica – di dire grazie a quella generazione. Il resto, tutto il resto, lo ha fatto Giorgio Felicetti.

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